Il danno morale sofferto dall’amministratore di condominio, derivante da ingiuria e diffamazione commessi da un condomino, può essere provato mediante presunzione in ragione del tipo di evento, ruolo della vittima e presenza o meno di più persone. È l’interessante precisazione della Corte di appello di Messina resa con sentenza 703 pubblicata il 25 agosto 2023.
La vicenda
La diatriba trae origine dalla azione civile intentata dall’amministratore di un supercondominio volta a conseguire il risarcimento del danno morale derivante dalla ingiuria (articolo 594 del Codice penale, depenalizzato per effetto del Dlgs 7/2016) e diffamazione (articolo 595 del Codice penale) commessi da un condomino. L’attore sosteneva di aver subìto danni non patrimoniali in conseguenza di frasi ingiuriose e diffamatorie proferite nei suoi confronti da un condomino alla chiusura dell’assemblea supercondominiale.
L’amministratore aveva comunicato ai condòmini intervenuti all’assemblea l’impossibilità di tenerla non essendo stato raggiunto il numero legale. Sennonché, in procinto di andarsene, un condomino gli indirizzava espressioni ingiuriose del seguente tenore: «…ha paura e scappa», «pagliaccio» e ancor peggio. Anche dopo essersene andato, il condomino proseguiva nell’insultarlo alla presenza di vari condòmini. Il Tribunale rigettava la domanda risarcitoria asserendo che le prove per testi non avevano chiaramente illustrato le circostanze fattuali, l’esattezza dell’evento e il comportamento delle parti presenti. Inoltre, riteneva deficitaria la rappresentazione del pregiudizio sofferto dall’amministratore.
L’amministratore gravava la pronuncia dinnanzi alla Corte messinese criticando la sentenza nella parte in cui i fatti venivano ritenuti provati solo parzialmente e per il mancato riconoscimento economico del pregiudizio sofferto. Il condomino si costituiva contestando le censure e chiedendo il rigetto.
L’appellante rilevava che rivolgersi ad un legale con espressioni pesanti in presenza di oltre sessanta condòmini e proseguire ad apostrofarlo in sua assenza con l’espressione «pagliaccio» integra una condotta ingiuriosa e diffamante grave, gratuita e spregevole tesa a ledere l’onore, il decoro e la reputazione personale e professionale. Ribadiva che il pregiudizio sofferto, erroneamente ritenuto non provato dal giudicante di prime cure, era stato identificato dalla giurisprudenza nel perturbamento psichico scaturente dall’illecito, da intendersi conseguenza normale della violazione del diritto. Rammentava che la giurisprudenza aveva precisato che la prova del danno poteva essere fornita anche attraverso presunzioni.
Secondo l’amministratore, il tribunale aveva tralasciato di considerare la rilevanza dell’offesa subita e la circostanza che gli insulti erano stati proferiti alla presenza di oltre sessanta condòmini, peraltro senza plausibili motivi e con l’evidente intento di gettare discredito. Nel caso trattato, il soggetto leso, oltre ad essere un avvocato, ricopriva il ruolo di vicepresidente del consiglio comunale. Da tali elementi poteva desumersi, seppure in via presuntiva, un danno morale ex articolo 2059 del Codice civile (sofferenza interiore derivante dall’illecito).
Le ragioni decisorie della Corte
È noto che chi si rivolge all’amministratore, anche in presenza di più persone, commette(va) semplice ingiuria (è il caso della assemblea di condominio). Se, invece, l’offesa viene proferita in assenza della vittima e in presenza di almeno altre due persone commette il reato di diffamazione.
La Corte ha ritenuto che sulla commissione dell’illecito ad opera del condomino non trovavano fondamento le dubbiezze paventate dal giudice di primo grado. D’altronde, i testi avevano confermato gli insulti oltraggiosi e denigratori proferiti all’amministratore. Dunque, il condomino aveva effettivamente ingiuriato e diffamato l’amministratore.
Quanto alla sussistenza di un danno-conseguenza derivato dalla ingiuria e diffamazione, pur non essendo nella stessa natura della cosa (in re ipsa), la Corte ha chiarito che può trarsi per presunzione dal tipo di evento, ruolo della vittima nella circostanza (amministratore del condominio), presenza o meno di più persone. Il significato delle frasi offensive pronunciate dal condomino bollano l’amministratore di pavidità e incapacità a reggere il peso delle azioni sicché sono causa di svilimento, dolore e rabbia. È senz’altro mortificante – ha proseguito la Corte – sentirsi definire codardo mediante un lemma offensivo. Perciò ha ritenuto la sussistenza del danno morale.In conclusione, in accoglimento dell’appello, quanto alla riparazione per equivalente, la Corte di Appello ha liquidato la somma di cinquemila euro ponendola a carico del condomino.